rAn number 4, February 1993 The zine is no copyrighted for the anarchist movement, please if you use "rAn" for your publications, please send us a copy. More informations in the read me file. --------------------------------------------------------------------------- The topics of this fourth issue are the use and the origins of the political slogans. There are articles about the misuse of the word "tolerance", the nationalist slogans, the political slogan in Italy and a text about the relationship between rap music and slogans. -------------------------------------------------------------------------- rAn, n.4, febbraio 1993 per la liberazione dell'intelligenza ^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^ Sulla testata di rAn appare uno slogan: "per la liberazione dell'intelligenza". Questa straordinaria capacita' della mente umana e' stata ed e' ancora al centro di innumerevoli ricerche, per questo tutt'ora si scontrano i sostenitori delle teorie genetiche ambientali e cibernetiche, ognuno con le sue conferme sperimentali definitive a proposito dell'origine, dello sviluppo e del funzionamento dell'intelligenza E' quindi molto difficile definire l'intelligenza, ma allora perche' quello slogan? L'ennesima contraddizione? Forse. E' facile invece affermare -proprio per la ragione scritta prima- che non esistono stupidi, ma solo persone che ragionano ed agiscono in maniera autolesionista. In questo senso possiamo definire l'intelligenza come l'esatto opposto dell'autolesionismo: e', per certi versi, la differenza tra gli sfruttati che si autoorganizzano e quelli che continuano a subire. Ma passare dall'autolesionismo all'intelligenza non e' semplice, non servono atti di fede o spiegazioni razionali, e' un processo piu' complicato dell'intelligenza stessa, come se vi fossero delle vere e proprie catene immateriali che costringano in una spiacevole condizione. Il nostro e' uno slogan ottimista e, anche se all'orecchio suona come altre frasi: "per la liberazione degli sfruttati (del proletariato, dei compagni arrestati, ecc.)", non ha lo stesso spirito missionario di alcune ed e' meno lugubre di altre, anche se, in un certo modo, le comprende. La domanda sibillina "Siete per l'ultimo dei mohicani o per il villaggio di Asterix?" e' invece una provocazione in attesa di risposte da indirizzare a: Nabat Casella Postale 318, 57100 LIVORNO. Qual'e' il migliore, l'orologio che segna l'ora giusta solo una volta l'anno o l'orologio che segna l'ora giusta due volte tutti i giorni? (Lewis Carroll, The Rectory Umbrella, 1849) RAN ******************************************************************** Lo slogan: a prescindere ^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^ Rubando le parole del filosofo Oliver Reboul, si puo' tentare di regalare la seguente definizione (per altro affatto definitiva): "Chiamo slogan una forma concisa e che colpisce, facilmente ripetibile, polemica e generalmente anonima, intesa a sollecitare le masse all'azione sia per il suo stile sia per l'elemento di autogiustificazione, emotiva o razionale, che vi e' inserita; siccome il potere di 'incitamento' dello slogan va sempre oltre il suo significato letterale, il termine ha un senso piu' o meno peggiorativo." Definizione questa in qualche modo riassumibile in uno specchietto comparativo che evidenzia le differenze di significato tra termini solitamente ritenuti sinonimi. Questo tentativo di definire lo slogan necessita pero' di alcune annotazioni. -Non si fa riferimento alla pubblicita' e alla propaganda, ma d'altra parte lo slogan e' esistito prima ed esiste fuori di esse. -L'inventore dello slogan e' esso stesso la prima vittima della formula propagandata. -Lo slogan non e' razionale ne' irrazionale, in quanto perche' passionale e razionale sono tutt'altro che antitetici, specie in politica, dove la passione e l'odio sono generalmente ragionati. E la ragione, la "ragion pura" di Kant, e' quasi sempre la paladina di una passione, non fosse altro che della passione di aver ragione. -Negli spot commerciali, nei cori da stadio, nei conflitti nazionali, nei contrasti ideologici, lo slogan previene sempre per sua natura ogni critica e ogni dialogo (es: Mussolini ha sempre ragione; i fascisti non devono parlare; o cosi' o pomi'; con il comunismo non si discute, si combatte; fatti, non parole...) resta dopo tutto quel che fu alle sue origini: il grido di guerra di un clan. -Slogan commerciali, politici ed ideologici appaiono infatti avere in comune una stessa "attitudine", indipendentemente da chi ne fa uso: "Non parliamo per dire qualche cosa ma per ottenere un certo effetto" (Goebbels o Lapalisse?). J.R. A B C D E F --------- ----------------------------------------Consegna + + - - + -Parola d'ordine + + + + - -Motto + - + + + -Slogan + + + + + + --------------------------------- ---------------- A formula concisa, in generale anonima o tendente all'anonimato,indirizzata a soggetti collettivi; B destinata a far agire in funzione di uno scopo preciso dotata di spirito polemico; D passionale e poetica nella forma; comporta un elemento di giustificazione e dunque puo' essere vera o falsa; ha un senso peggiorativo (es: "parlare per slogan"). ******************************************************************** Il falso valore della tolleranza ^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^ In questi ultimi mesi, durante i quali la sete di sensazione dei giornalisti e le loro stesse malefatte hanno conquistato ai microcefali pelati le prime pagine, i mezzi di comunicazione di massa e con loro un po' tutto l'antinazismo democratico ci hanno proposto/imposto come "parola chiave" (slogan aggregante ed obiettivo di una tensione utopica) la TOLLERANZA: "per una societa' tollerante", "per una cultura della tolleranza" ecc. Il termine "tolleranza" rappresenta, secondo me, una trappola linguistica: esso sale alla ribalta come negazione dell'intolleranza, caratteristica dei nazi, e viene dato come unica possibile opposizione alla marea montante del razzismo. Ma se, in se', la tolleranza e' sempre meglio dell'intolleranza (quanto meno non fa male a nessuno), non puo' neanche essere il valore fondante di una societa' che superi le discriminazioni. Letteralmente io "tollero" qualcosa di fastidioso, ma che non reputo grave. Quindi, "tollerero'" il negro o l'omosessuale in quanto la loro diversita' e' tutto sommato un difetto di minore importanza, ma questo non vuol dire che non sia un difetto. Siamo ben lontani, dunque, dalla pari dignita' o dal rispetto della diversita' come patrimonio "altro" (e complementare) dal nostro. La tolleranza, come atteggiamento sociale e come modello di convivenza tra "diversi", e' univoca e gerarchica: essa propone infatti un rapporto dall'alto verso il basso, in cui e' sempre il forte che, in quanto tale, puo' permettersi di tollerare il debole. Non rappresenta un superamento della conflittualita', ma solo la sua sospensione per disparita' delle forze in campo. Il concetto di tolleranza propone, in fondo, una societa' pacificamente gerarchizzata, in cui la differenza e' sopportata, ma non si offre (o non si valuta) come ricchezza collettiva: al diverso e' concesso si' un posto, ma sempre in posizione di subalternita'. Storicamente, le societa' "tolleranti" si sono sempre riservate il diritto al pogrom, proprio in quanto tollerare non e' sinonimo di rispettare, e perche' si puo' tollerare qualcuno senza smettere di considerarlo "inferiore". Come scordarsi poi che, non a caso, le "case di tolleranza" erano i ghetti dove la prostituzione era sopportata in quanto "male inevitabile", ma dove la dignita' sociale delle donne non ha fatto certo i suoi piu' significativi progressi! Un'altra faccia della medaglia e', a volte, l'assolutizzazione del concetto di tolleranza, per cui si deve essere in grado di sopportare tutto in nome del rispetto della diversita': se litigo con un nero per motivi di viabilita' sono un razzista, ma nessuno trova niente da ridire se per le stesse ragioni e negli stessi termini mando affanculo un bianco. Oppure si tollerano crudelta' e palesi ingiustizieperpetrate in culture diverse dalla nostra: con il distacco di un etologo osserviamo la lapidazione delle adultere nell'islam o il rogo delle vedove indu' sulla pira del marito. L'indignazione per l'offesa recata ad un essere umano e' scavalcata dalla comprensione per le "inevitabili imperfezioni" di una cultura che, essendo diversa dalla nostra (che in quanto vincente e' la "piu' avanzata", e' la civilta' per antonomasia) deve ancora percorrere il "cammino del progresso". E' infatti il rapporto gerarchico che instauriamo fra la nostra cultura e l'altrui che ci consente di sentirci "super partes", cioe' tolleranti. La tolleranza sempre quindi come fenomeno di una mentalita' gerarchizzante che finisce per porre il bianco, l'occidentale, il "normale" in grado di tollerare in quanto superiore (cioe' protetto dal denaro, dalla tecnologia, o semplicemente dal numero). Ma quello che viene da chiedersi e' come mai, sui mezzi di comunicazione di massa, l'attacco neonazista e' presentato come lo scontro tra le idee antinomiche tolleranza/intolleranza? Il termine che sembra si voglia assolutamente evitare e' "antifascismo": da un punto di vista commerciale e' francamente obsoleto, ma soprattutto implica un coinvolgimento diretto nell'opposizione all'intolleranza razzista, un passaggio "dall'indignazione all'azione" che puo' avere una portata che va oltre lo scontro col nazi per estendere una pratica di "azione diretta" o di "autodifesa attiva" ad altri aspetti del confronto sociale. Va detto inoltre che quasi mai gli antagonisti che, in Germania come in Italia, si sono scontrati coi nazi, sono stati definiti "antifascisti" dai media; l'aggettivo, legato tuttora alla mitologia della fondazione della Repubblica, rischierebbe di legittimare gruppi e movimenti che si preferisce invece criminalizzare. L'antifascismo puo' essere ancora in qualche misura destabilizzante, la tolleranza no: essa non fa parte del patrimonio linguistico dell'antagonismo sociale, e' un termine da circoli liberali, da sagrestie in vena di ecumenismo, e' parola laica e democratica, digeribile per tutti (prova ne sia il fatto che, probabilmente, nessuno o quasi accetta l'epiteto di intollerante, ma che neanche quello di antifascista e' granche' popolare). La tolleranza diventa quindi parola d'ordine preferita in quanto implica democrazia (intesa anche come gestione pacifica dello statu quo e della gerarchia sociale), e quindi anche delega allo stato democratico e alle "autorita' preposte" dello scontro diretto (anche fisico) con l'"aggressore". La societa' "tollerante", dunque, chiede alla sua polizia di fermare i naziskin, affinche' tutto torni come prima, con i neri a vendere accendini e noi a comprare maschere alle fiere di beneficenza. D'altra parte, infine, sarebbe un po' ridicolo spaccare la testa a un nazi in nome della tolleranza... O no? Panurge ******************************************************************** ********** Scemi, scemi... ^^^^^^^^^^^^^^^^ C'e' un corteo in lontananza, provate a indovinare chi sono quelli che marciano silenziosi senza bandiere e/o striscioni in vista, se non gridano qualche slogan (che avete gia' sentito): e' impossibile, a meno che non conosciate personalmente qualcuno dei partecipanti. Gli slogan servono a classificare le varie componenti di una manifestazione. Dal punto di vista espressivo la varieta' degli slogan e' enorme: vi convivono soluzioni linguistiche ardite(1) e originali accanto a cantilene tradizionali(2). Lo slogan e' un buon indice della "temperatura" del corteo, se mancano gli slogan difficilmente la manifestazione soddisfa i partecipanti. C'e sempre qualcuno che sbaglia a gridare lo slogan (anche perche' ne esistono varie versioni)(3): ci sono gli slogan "a dispetto", cioe' quelli che riprendono uno slogan altrui(4); quelli "regionali", spesso in dialetto che, in qualche caso vengono ripresi anche in regioni diverse(5); quelli che "continuano" uno slogan precedente(6); quelli con una metrica difficile e/o inconsueta (di solito gli slogan sonoin rima baciata(7), perlopiu' endecasillabi o dodecasillabi(8)). Il contenuto dello slogan e' divisibile in due parti: nella prima si dice qualcosa contro qualcuno e nella seconda il nostro parere(9), nella prima si pone un problema e nella seconda la soluzione(10). Gli slogan, a volte, hanno diverse interpretazioni: "ora e sempre: resistenza", slogan ampiamente riciclato e riutilizzato, ad un orecchio attento potrebbe suonare anche in modo totalmente diverso dall'originale: "ora, e' sempre resistenza"; da intendersi come "siamo sempre nelle condizioni di oppressione di un regime autoritario e dobbiamo comportarci di conseguenza". Lingue straniere ammesse per gli slogan: inglese(11) (dal 50/60), francese(12) (fin dal '68) o spagnolo(13) (dal '73). Quante volte va ripetuto uno slogan? Nel maggiore dei casi tre volte, alcuni vanno eseguiti in crescendo, aumentando il volume e il tempo, ma poi c'e' sempre quello che si trova a gridarlo da solo. Lo slogan serve a "caricarsi" e a farsi sentire sia dagli altri manifestanti che dalle persone che incrociano il corteo, ma soprattutto dai primi. Lo slogan, nei cortei, serve piu' che altro all'identificazione: il ruolo e' principalmente quello di comunicare agli altri partecipanti la propria presenza. Noi, gruppo-partito-ecc., siamo qui nel corteo, siamo quelli che..., gridiamo questo slogan, a questa categoria di persone (sbirri, padroni, fascisti, borghesi, ecc.). Col passare del tempo, fortunatamente, sono diventati obsoleti quei tipi di slogan articolati sui nomi delle "guide" della rivoluzione(14); chi scrive giura di aver sentito (anni addietro) anche una versione anarchica dei medesimi, anche se forse gridata solo ironicamente(15). Che slogan facciamo? C'e' sempre il compagno fissato con un particolare slogan e c'e' sempre quello (di solito ha un megafono) con la scaletta pronta: gia' stampata su carta e distribuita al "coro", oppure preparata in fretta la sera prima, quando non viene in mente nessuno slogan nemmeno a pagarlo. Lo slogan di partito: e' sempre lo stesso (come il suo simbolo serve per farsi riconoscere senza problemi) e' un marchio16; cambia contenuto(17), mantenendo lo stesso ritmo, a seconda delle occasioni. Lo slogan "creativo" (anche se e' difficile urlare "l'immaginazione al potere"): di derivazione settantasette; lo "scemo-scemo" prosegue per altri lidi, tocca la tv, approda definitivamente allo stadio; slogan surreali(18), dadaisti e futuristi durano troppo poco per entrare nella memoria collettiva. Perche' "muore" uno slogan? Quando non e' piu' di attualita'(19) Quando ci si vergogna a farlo(20) Quando si dimentica(21) (quelli che lo facevano non ci sono piu') Gli slogan vengono riciclati sia dai gruppi politici che dalla pubblicita' che non bada a sottigliezze, vanno bene sia quelli dei riformisti(22) che quelli dei rivoluzionari(23). Gli slogan di partenza del corteo (quelli detti col piede che avanza) ed i loro parenti ritmati con le mani(24) (in altri anni anche con le aste delle bandiere battute per terra). Lo slogan e' anche: una parola d'ordine (apriti sesamo, altola' chi-va-la' fatti riconoscere) qualcosa che ti permette di fare parte di qualcos'altro (siano essi i 40 ladroni o l'esercito); un luogo comune (parlare per slogan, scrivere per slogan). Chi inventa gli slogan? Lo stesso che inventa le barzellette? A volte, gli slogan sono come le barzellette e le barzellette come gli slogan. Pepsy NOTE ----- ( 1) Siamo belli, siamo tanti, siamo covi saltellanti. ( 2) E' ora, e' ora, potere a chi lavora. ( 3) I porci fascisti non devono parlare, le loro sedi devono saltare [bruciare]. ( 4) La P38 e' solo un'illusione, 44 magnum e' la dimostrazione [per la rivoluzione]. ( 5) Te ne vaje o no, te ne vaje si o no? ( 6) Fuori i fascisti anche dalle fogne, violenza proletaria [rossa] contro le carogne. ( 7) Strage di Stato, Pinelli assassinato. ( 8) Il pro-le-ta-ria-to non ha na-zio-ne/ in-ter-na-zio-na-li-smo-ri-vo- lu-zio-ne (11+12). ( 9) La disoccupazione ti ha dato un bel mestiere (1a parte), mestiere dimerda carabiniere (2a). (10) Su, su, su i prezzi vanno su (1a parte), prendiamoci la roba e non paghiamo piu' (2a). (11) Yankee Go Home. (12) Il leggendario "Ce n'est qu'un de'but continuons le combat" e le sue tragiche versioni: Se non cambiera', lotta dura sara'. No, no, non si puo', andare avanti cosi'. (13) El pueblo, unido, jamas sera' vencido [el pueblo armado, jamas sera' matado]. (14) Giap, Giap, Ho-Chi-Min; Viva Marx, Viva Lenin, Viva Mao-Tze-Tung [Viva Gramsci e Togliatti]. (15) Bakunin, Kropotkin, Ma-la-te-sta [Proudhon, Bakunin, Ma-la-te-sta]. (16) E'ora, e' ora, e' ora di cambiare: il pci deve governare [comandare, sic!]. (17) E'ora, e' ora, e' ora di cambiare: la dc se ne deve andare. (18) E'ora, e' ora, potere [governo] alla malora (vedi nota 2). (19) Almirante boia. (20) Fascisti, borghesi, ancora pochi mesi. (21) Champagne-Molotov. (22) Potere a chi lavora (ancora!); utilizzato per la re'clame di una macchina da ufficio. (24) Intramontabili quelli sulla falsariga del francese sopra citato. ******************************************************************** ********** La lingua langue ^^^^^^^^^^^^^^^^^ la lingua langue, ora e' primadonna l'immagine. la lettura e' per i curiosi, di stato d'animo differente dai guardoni, se gli si consente di avere libri e tempo. l'ascolto e la visione, altrimenti. veicolo: la televisione. la televisione e' sacra: "sacro" significa "separato". e' lo strumento sacrificale che prende su di se' i peccati del mondo, tutte le colpe, tutte le noie, tutte le responsabilita', la tv, quest'oggetto sempre separato da noi dalla distanza d'utenza, e' il mezzo della nostra latitante redenzione dall'isolamento, e lo strumento della nostra separazione dalla viva realta' del mondo. "Lode a Te, Signore, per la televisione. Questa cattedra che si pone nel cuore di ogni casa non turbi, ma alimenti l'armonia della famiglia, prepari uomini nuovi per un mondo nuovo fondato sul tuo Vangelo". Cosa c'e' dunque dentro questo contenitore d'immagine? La somma di tutto il pensiero qualunquista, di tutto l'imperialismo che ha guidato con ferma intenzione il progresso tecnologico. La Tv e' appunto uno strumento, e come tale serve l'anima del Capitalismo che va alla ricerca di un generalizzato dominio sul Mondo, come religiosamente spiega la "Lode al Signore per gli strumenti della comunicazione sociale". Come strumento che induce alla passivita', la Tv e' di gran lunga piu' idonea a distribuire messaggi analgesici e falsi che la verita'. l'ascolto attivo di programmi radiofonici parlati e' gia' acculturazione, segno di volonta', la televisione e' invece trance visiva. dagli occhi l'ipnotismo, una stasi nervosa composta da diversi stadi si trasmette al cervello. ecco: vi e' la sonnolenza, il rilassamento, l'erotizzazione, lo scaturire di una voglia, la individuazione di un nemico in un soggetto televisivo, l'eccitazione nervosa e lo stimolo a colpire mentalmente il bersaglio, supportato da suoni. l'uccisione e' il primo comandamento applicato in televisione: cio' che non si puo' prendere deve sparire, il nemico, l'oggetto desiderato e imprendibile. la virtualita' e' pericolosa perche' nasce dalle esigenze di un sistema sociale e politico totalmente imperialista, possessivo, con la nevrosi del NULLA. Ad ogni offerta di oggetti desiderabili percio' equivale un riscatto di delitti, uccisioni ed esplosioni dell'istinto di morte. La solita storia di Eros e Thanatos. Viene attuata una scelta, anche se non sempre accurata, di coloro che possono dirigere/descrivere i desideri; innanzitutto, che siano personaggi la cui prima proprieta' sia di possedere diverse culture ma nessuna profondamente: perche' il loro mestiere sara' riunire tutti per un racconto superficiale e fasullo delle emozioni, dei desideri, della politica, delle culture. La tv racconta la vita come i documentari di Walt Disney: montandola. La ricerca di episodi cruenti dal vivo e' affannata: rendono piu' credibile il lavoro di montaggio complessivo della falsita'. Definizione di fasullo: il criterio principale e' quello di riunire sotto un unico indice d'ascolto le masse; per far cio' si deve sempre essere accattivanti. e' accattivante cio' che presenta l'utente come protagonista, il "media" deve mediare, fare la media per offrire sempre un prodotto che risulti confortante per i bisogni del "vedente medio": amore, soldi e potere, considerazione e' possibile soddisfare direttamente a dei bisogni (giochi, quiz ecc.) e indirettamente (telenovelas, squadra omicidi ecc.). Quindi, i desideri dei "produttori", quasi tutti uomini (per non parlare dei pubblicitari) cadono come un boomerang sul pubblico femminile della tv, sciorinando maschilismo, e produzioni del tutto improntate ai desideri dell'utente maschio medio. La politica e' riprodotta con gli stessi intenti di normalizzazione: e in ogni programma, da quello per bambini al tg, passera' la piu' coerente pubblicita' del tradizionalismo e del qualunquismo. Mostri, martiri, eroi, sono figurine. Ecco, il cavaliere bianco sulla sua lapide ancora galoppa: e sembra essere facile preda, per nuove arringhe, degli uomini della destra in cerca di nuovi simboli del loro inesistente bisogno di giustizia sociale. Cosi', i morti per mafia spesso divengono applaudito tema di discorsi dei gruppi e dei leaders politici della destra italiana, che li usano per incitare alla distruzione di un sistema politico ad essi incongruo (la fantomatica "democrazia"). La tv permette l'amplificazione di questi tentativi di strumentalizzazione infinitamente piu' che la diffusione di messaggi e documenti di verita' sui fatti: per dire la verita', basta poco, per contraffarla invece sono molto piu' utili e necessarie le tecnologie. Vi sono dei maghi che hanno assoluto bisogno della tv per rendere possibili i loro trucchi. La lingua si adatta bene alla contraffazione della realta' supportata da immagini: giovandosi di frequenti ripetizioni, di parole dai molteplici e spesso contrari significati, della sparizione di un preciso soggetto. Percio' l'americano e' una perfetta lingua imperialista: permette di inculcare luoghi comuni e direttive con efficacia, e di far perdere nel nulla la responsabilita' delle azioni. "E pluribus unum". Dai molti uno solo: un solo Stato, una sola lingua. E un solo sesso. Senza la coscienza di questa monoliticita' degli intenti comunicativi, ancheil "ritorno" all'uso dei linguaggi popolari e regionali, da' luogo ad un'infinita' di luoghi comuni e vecchie storie, il cui "pregio" risulta essere solo quello di risultare ora meno comprensibili; eppure, la lingua regionale puo' scoprire una grande dolcezza nei contenuti (la vicinanza alla terra, un rapporto meno espropriante con le cose). Una dolcezza che non "lega", e che di per se' vale tanto per chi puo' assaporarla. La mia generazione, spesso impossibilitata a fruire i dialetti per ovvi motivi, ha anche inventato o "recuperato" tecniche di comunicazione basate sul doppio, triplo senso... sulle associazioni di pensiero: gli esperimenti che attuiamo col Groucho Marxismo (abbondantemente fluiti, anche se in peggio, su "Cuore") sono tutti tentativi di spezzare la "unicita'" di senso e di "sesso" del linguaggio. L'uso di piu' lingue, di piu' piani interpretativi, permettera' un ampliamento infinito di queste tecniche. La conoscenza di piu' lingue permettera' di confrontare i "retroterra" delle parole: ogni parola esprime qualcosa di diverso, e ha un "inconscio" diverso da lingua a lingua; studiare piu' lingue con questo tipo di interesse permette una conoscenza Disordinatamente Mondiale dei linguaggi. Oltrettutto, come saprete, la conoscenza dei meccanismi grammaticali e dei significati di piu' lingue, apre nel cervello l'uso di "settori" altrimenti, diciamo cosi', "VUOTI": e non collegati tra loro. "Divide et impera", dividi e regna, ecco un'altra massima cara al pensiero del Nuovo Ordine Mondiale: l'applicazione meticolosa e fantasiosa, per creare un sistema di linguaggi inter-reattivi e creativi, ha gia' una base nel lavoro giornaliero di tutti glianarchici e di libertari che di paese in paese comunicano, si "traducono', si scambiano culture. In questo senso, il lavoro di collegamento e di coordinamento tra noi e' prezioso, prezioso anche per chi fa l'artigiano della parola e "coltiva la propria poesia": prezioso per noi che, legate/i alla politica saldamente, facciamo poesia, teatro, comicita'..., la nostra reale e concreta "realta' virtuale" che non necessita di assoggettamento all'anagrafe elettrica ne' alla Siae. Questi sono "tempi di pentimenti" e conversioni, anche il peggiore mercante di emozioni ci tiene a far sapere in giro che legge la Bibbia e possiede un' - anima-. Le piu' moderne tecnologie della comunicazione sono al servizio e calzano perfettamente a questi parlatori del riverbero, a questi mercanti del soft-ware emotivo, a questi teatranti della Trasgressione catartica... la lingua langue, l'ugola e' uggiosa, uggiola e guaisce e il gergo da gendarme la lambisce la svilisce la oscura. dada knorr ******************************************************************** Lo slogan organico ^^^^^^^^^^^^^^^^^^ Il rap imperversa. Anzi, ormai e' da un po' che imperversa. Di piu': il rap e' la musica "nostra". E' la colonna sonora dei Centri Sociali, delle feste "alternative", delle manifestazioni e anche delle trasmissioni "giuste" di Rai3, naturalmente. La storia la conosciamo bene. Il mito, ormai, e' assodato: il paio di microfoni e il giradischi che bastano per mettere su un gruppo (il rap e' la musica povera), gli scantinati dei CSA da dove spuntano le posse e i camioncini che le portano nelle piazze d'Italia a urlare la nostra rabbia (il rap e' antagonista), che non serve saper leggere la musica e neanche saper suonare un bricinino (il rap e' il nuovo punk, e' piu' punk del punk). E via cantando. Meglio: via scandendo. All'inizio (e anche fino a noi) Il rap non e' idea particolarmente nuova. Nella tradizione della musica nera l'uso della voce non cantata, ma scandita o piu' raramente recitata e' sempre stato presente, almeno dai "talking blues" in poi. E', pero', solo a partire dagli anni '60 che, in Giamaica, parallelamente alla diffusione del reggae e delle grandi feste all'aperto a base di dischi (senza una band che suona), nasce un nuovo tipo di disc-jockey che non si limita a mettere su le canzoni una dopo l'altra, ma le mixa, ci parla sopra, ci recita anche (il "dub"), muove il disco sul piatto con le dita e aumenta o diminuisce la sua velocita' (lo "scratch"). Questo nuovo stile viene chiamato "cut'n'mix" e delinea una nuova figura del dj che, se non e' ancora certamente un musicista, non e' piu' neanche solo un tramite passivo della musica altrui. Come scrive il critico musicale inglese Dick Hobdige "la concezione del cut'n'mix prevede che un suono o un ritmo non appartenga a nessuno: il suono lo si usa, lo si fa ascoltare alla gente, lo si propone in mille modi diversi". Il "dub" entra cosi' a far parte di quell'immenso filone d'oro (sonoro) che e' la reggae music. E dopo i dj, imparano presto ad usarlo i poeti (gli esempi piu' famosi sono U Roy e Linton Kwesi Johnson) e anche i militanti che, dubbando abilmente, mescolano musica danzante e messaggi politici. Il nuovo stile, dopo essersi diffuso rapidamente dalla Giamaica ai quartieri degli immigrati di colore in Gran Bretagna, inizia ad arrivare anche negli USA a partire dalla meta' degli anni '70. La leggenda narra che a portarvelo sia stato un dj giamaicano, Kool Herc, che nel '67 si trasferi' a New York. La situazione inglese-giamaicana e quella americana, comunque, erano ben diverse. Nell'ambito del reggae, infatti, musicista e ascoltatore si situano entrambi in un contesto culturale fortemente riconoscibile e ben connotato sia a livello politico che a livello religioso (il rastafarianesimo) e l'iconografia dell'artista e' quella del perfetto rastaman che puo' avere eventualmente degli aspetti di guida spirituale o di profeta, ma non certo di un uomo ricco o di successo (anche quando sfonda tra i bianchi: basti pensare a Bob Marley). La distanza invece, tra le superstars della musica nera statunitense ed il loro pubblico e' invece ben piu' marcato: gli Chic, gli Earth Wind and Fire, Donna Summer ostentano auto di lusso e case faraoniche, frequentano il jet-set dei "bianchi", il segno della loro popolarita' e' fin troppo evidentemente nella ricchezza. Il cut'n'mix diventa, cosi', uno strumento di riappropriazione dei ritmi e delle melodie funky e disco e parlare sui brani significa metterci, innanzitutto, il proprio segno (il proprio quarto d'ora di celebrita'), indipendentemente da quel che si dice. E, all'inizio, spesso non si dice altro che di ballare e di far l'amore (due ottime idee, peraltro). La nuova scena "rap" o "hip hop" e', sin dal principio, molto frantumata: i primi due rappers di successo, Grandmaster Flash e Afrika Bambaata, si presentano rispettivamente come una specie di demonio sessuale e un caritatevole profeta del ritorno all'africanita'. Le cose, comunque, iniziano a cambiare nell'84/85 quando gruppi rap come i Run DMC (con la versione rappata di "Walk on this way" dei bianchissimi Aerosmith) e i Beaste Boys iniziano ad avere successo anche tra i bianchi (e non solo tra i frequentatori di discoteche) e le frequenti retate antidroga della polizia nei quartieri neri portano ad un intensificarsi dell'attivita' delle gang e, comunque, della rabbia generale dei giovani di colore contro il potere bianco. A differenza di quanto era accaduto in Giamaica ed in Inghilterra, il malcontento e l'estraneita' non si organizzano in altre forme che in quelle disperate delle gangs o dei Musulmani Neri e il filone del rap che puo' essere definito "militante" (quello di IceT e dei Public Enemy) esprime piu' una generica ribellione contro un potere non meglio definito che istanze radicali e rivoluzionarie e lo stesso "orgoglio nero" assume i contorni, talvolta, di una sorta di razzismo alla rovescia, rivolto non tanto verso i bianchi quanto verso altre minoranze come gli ebrei o gli asiatici. Eppure, per quanto questo filone sia minoritario nel rap rispetto alla miriade di gruppi che invocano soprattutto sesso&soldi facili, esso incontra il favore dei giovani bianchi europei e statunitensi che, dopo lunghi anni di fredda new wave e di rock revivalistico, salutano il rap come la "musica del momento". Se, pero', negli Stati Uniti il rap rimane sostanzialmente una "musica da neri" e i pochi rappers bianchi si muovono quasi esclusivamente sul bieco commerciale,in Europa iniziano a sorgere sempre piu' spesso gruppi rap che usano la propria lingua. Il rap italiano (un'altra storia) Rappare (scandire velocemente e chiaramente parole sulla base di un ritmo ossessivo) e' divertente e interessante e, soprattutto, e' facile da fare e da condividere. Il rap, quindi, entra innanzitutto come linguaggio, che viene usato dapprima dai disc-jockey, ma di cui comunque e' semplice impadronirsi. Nel movimento il rap arriva subito, alle radio libere e anche nei cortei, non solo nelle grandi citta' (indimenticabile la rapper dell'Assemblea Permanente alle manifestazioni contro la Farmoplant di Massa), a partire dalla seconda meta' degli anni '80. E' tuttavia solo con il successo dei Public Enemy e del film "Fa' la cosa giusta" che inizia a venir fuori quel che si dice "il rap italiano". Dovendo situarne un punto di diffusione, lo si potrebbe forse trovare in alcuni Centri Sociali (quasi esclusivamente urbani) prima e poi nel velocissimo movimento studentesco del '90, la celebre Pantera (che non a caso gia' si chiamava "pantera"), alle feste nelle facolta' occupate, dov'era improbabile riuscire a portare un impianto d'amplificazione per far suonare un gruppo vero. La produzione discografica inizia ben presto: il disco dell'Onda Rossa Posse e' della primavera del '90. Il primo pezzo che s'inizia a sentire in giro, e non soloin ambienti alternativi, e' "Stop al panico" dell'Isola All Stars Posse, un prodotto collettivo contro la guerra nel Golfo fatto dai rappers che ruotano intorno all'Isola nel Cantiere di Bologna. Pochi mesi dopo i Sud Sound System inaugurano alla grande la stagione del ragamuffin' (una specie di rap piu' melodico, fatto su basi reggae o comunque non esagitate) con il brano "Fuecu". E qui inizia la leggenda. I Sud Sound System iniziano ad entrare nella programmazione estiva delle discoteche, le riviste musicali (in particolare Rockerilla e la gia' defunta Velvet) dedicano largo spazio al rap nostrano e c'e' anche un giornalista de il manifesto, Alberto Piccinini, che inizia a fare una serie impressionante di articoli su qualunque roba avesse a vedere con le posse. In breve tempo, i primi gruppi rap militanti iniziano ad apparire su Rai3 sulle furbe "la tv delle ragazze" ed "Avanzi" e anche la Repubblica e King "scoprono" il fenomeno che arriva velocemente un po' dappertutto. La leggenda del rap suona piu' o meno cosi': il rap e' la musica del momento, e' roba alternativa che viene dai Centri Sociali (che e' meglio non precisare cosa sono, che sulle riviste patinate non sta bene), che viene prodotta da etichette autogestite, che viene suonata da giovani d'estrema sinistra (autonomi?) giustamente arrabbiati con il mondo (che tanto ormai va bene che siamo incazzati tutti, senno' di Pietro che ci fa?). La leggenda suona buffa, con un minimo di conoscenza della cosa. Banalmente, per dirne una, il rap come "musica dei Centri Sociali" e' un po' improbabile da spacciare a qualunque frequentatore di un CSA che sa bene che per ogni posse che fa le prove in un centro sociale ci sono almeno cinque gruppi rock e per ogni concerto rap ci sono almeno dieci concerti di musica suonata. Il rap, casomai, esce piu' fuori dai Centri Sociali, alle feste ed alle manifestazioni, ma anche nelle discoteche "alternative" (che, dopo anni, stanno riavendo un boom) e in radio e in tv, pure. E anche la storia dell'autoproduzione regge poco: se e' vero che alcune posse (poche) si fanno in casa le cassette, e' vero anche che la maggior parte dei dischi sono stati prodotti da case discografiche di proprieta' magari di "amici" o "simpatizzanti", ma comunque gia' al di fuori di un contesto di autoproduzione militante, come potrebbe essere quello del circuito anarcopunk. La leggenda, piuttosto, dice molto in se' ed e' interessante per come, ad esempio, fa diventare i Centri Sociali che appaiono come una specie di club di urlatori e di dj, senza far trasparire nulla o quasi delle dinamiche, delle storie e delle lotte degli spazi autogestiti. E dice molto anche sul rap, il fatto che vi sia una leggenda "ufficiale". Il rap e' facile. E qui ci sta tutta la sua debolezza e tutta la sua forza: e' uno strumento utile e simpatico per comunicare, si puo' prendere il microfono anche con poca maestria, ma si riesce a dire poco ed e' comunque difficile dire qualcosa di nuovo. Dove si finisce, e' facilmente sul gia' detto che e' piu' semplice da far capire e che, pero', finisce facilmente nell'innocuo. Lo slogan, ritmato, con una base musicale simpatica, in una discoteca di tendenza o nello spazio rock di una trasmissione televisiva non fa' molta piu' paura di una manifestazione vista al telegiornale. "Trent'anni di rock'n'roll ci hanno insegnato a distinguere chi abbaia e chi morde" ha detto, un paio di lustri fa, Abbie Hoffmann. Augh! Peter P. ******************************************************************** Sintonie ^^^^^^^^^ Impossibile scorrere una gazzetta qualsiasi, di non importa che giorno, mese o anno, senza trovarvi, a ogni riga, i segni della piu' spaventosa perversita' umana e, in pari tempo, le piu' stupefacenti vanterie di probita', di bonta', di carita', e le piu' sfrontate affermazioni riguardo al progresso e alla civilta'. Ogni giornale, dalla prima all'ultima riga, non e' che un contesto d'orrori. Guerre, delitti, furti, impudicizie, torture, delitti dei principi, crimini delle nazioni, delitti dei privati, un'ebrezza d'atrocita' universale. E con questo disgustante aperitivo l'uomo civile accompagna il suo pasto d'ogni mattina. Tutto, in questo mondo, trasuda il delitto: il giornale, i muri eil volto dell'uomo. Non capisco come una mano pura possa toccare un giornale senza una convulsione di disgusto. Charles Baudelaire ******************************************************************** Gocce ^^^^^^ Cose buone dal mondo. La resurrezione di Cyborg (mensile, 100 pagine lire 5000) deve essere accolta come merita, con gli auguri per una vita piu' lunga e gioiosa della precedente. Nella nuova serie troviamo autori gia' noti e rubriche di musica e comunicazione; buono l'esordio di Ramarro e le nuove avventure della Fondazione Babele, scontata la qualita' di Helter Skelter. Dignitose le altre storie, anche se non siamo dei fan dello splatterpunk. Tra le contraddizioni, una ci sembra vada sottolineata: mentre viene dato ancora ampio spazio alla pratica e alla teoria dell'hackeraggio sociale, vale a dire al fatto che le informazioni devono servizio -a pagamento- su videotel, vero e proprio campo di battaglia degli hacker italiani. Masochismo? Ci sembra inoltre che resti il solito problema della puntualita' nelle uscite (a gennaio era in edicola il numero di dicembre) che ancora una volta sembra un problema insormontabile. Una nota stonata e' invece la pretesa di farci ritagliare un pezzo della rivista per partecipare ad un concorso a premi per tutti, ma forse e' solo un tentativo di farci acquistare un'altra copia del giornale, solleticandoci con l'intrigante fumetto in regalo. Una agendina in regalo col primo numero. Un albo nel numero 2. --------------------------------------------------------------------------- Ricordi boia. A noi di rAn la retorica non piace, ma ancor meno la censura; cosi' dobbiamo parlare del film "Sacco e Vanzetti" (di Giuliano Montaldo, 1971), nella nuova versione home-video della Ricordi in vendita anche nelle edicole a prezzo popolare, gia' a suo tempo commercializzata con l'etichetta "Videogroup - Roxy Video". Nonostante l'A cerchiata in bella mostra, la videocassetta e' la versione del film censurata dalla RAI, senza la frase finale "Viva l'Anarchia", storicamente pronunciata da Vanzetti sulla sedia elettrica (come attestato dai verbali dei suoi boia). Meraviglia che il Centro Studi Libertari di Milano, pur rilevando tale taglio (vedi Umanita' Nova n.2, 17/1/93), abbia deciso di rivenderlo e farne omaggio ai propri soci. --------------------------------------------------------------------------- Mario Lorenzini. La sua morte ha rattristato molti e molti lo hanno ricordato come compagno, comunista, anarchico, sempre presente nelle lotte sociali, ecc. Tutte cose innegabili, ma qui ci piace rimpiangerlo proprio per l'aspetto piu' contraddittorio della sua umanita', su cui tutti hanno preferito sorvolare; Mario raccontava delle balle terribili. Si, balle, panzane, frottole inaudite, a cui lui stesso finiva per credere, su un passato di scontri di piazza, molotov, antifascismo militante e amore libero. Mario quelle cose le aveve vissute davvero, in prima persona, per cui non aveva certo bisogno di inventarsi dei precedenti per personale vanagloria; eppure sembrava non resistere alla tentazione di costruire delle autentiche leggende metropolitane attorno a fatti e persone dell'amato Movimento che, attraverso le sue parole, appariva ancor piu' straordinario. Leggende metropolitane col sapore salmastro delle storie narrate dai vecchi marinai di cui Mario, oltre all'aspetto, aveva la passione per il navigare a vela. Sicuramente, per lui, la verita' non era sempre rivoluzionaria; eppure anche nelle sue bugie piu' surreali non c'era meno realta' che in certe ricostruzioni stile "Formidabili quegli anni", scritte da personaggi che, al contrario di lui, l'eskimo l'avevano buttato via da tempo. Per questo, anche se non sempre c'era la voglia di stare ad ascoltarle, le balle di "Simbad" ci mancheranno. --------------------------------------------------------------------------- Suggerimenti. "In seguito al successo e alla diffusione che le fotocopiatrici a colori hanno conquistato, ma soprattutto per le loro straordinarie prestazioni, che permettono di ottenere copie identiche a qualsiasi tipo di originale, tali macchine hanno sollevato il problema della sicurezza" (Computer, XVIII, 500, 27/1/93). Questo e' l'inizio dell'articolo nel quale si annuncia una nuova generazione di fotocopiatrici, capaci di "marcare" le copie fatte in modo che da esse si possa risalire alla macchina che le ha prodotte, e in grado di riconoscere le banconote: "la fotocopiatrice riconosce una banconota registrata precedentemente in memoria e ne impedisce la duplicazione" producendone "una copia sfuocata". L'intento pubblicitario dell'articolo e' evidente (per ora le produce solo una grossa multinazionale giapponese); se la pubblicita' dicesse la verita', allora vorrebbe dire che ci sono ancora in giro macchine capaci di moltiplicare la cartamoneta. WOW! --------------------------------------------------------------------------- A prova di orrore. Nessun esperto ha ancora fornito spiegazioni sul missile "cruise" , made in USA (anzi, Florida), che ha semidistrutto l'Hotel Rashid a Bagdad, sede degli inviati speciali della stampa estera e delle troupe televisive occidentali, specialmente yankee. Infatti, pur senza avere particolare fiducia nella supertecnologia delle bombe "intelligenti", 20 km di errore rispetto all'obiettivo (sui 50 metri reclamizzati!) appaiono davvero troppi. Allora proviamo noi a formulare alcune ipotesi a riguardo. La piu' incredibile, con buona approssimazione, e' la piu' veritiera. A. Non e' stato un errore. Nel '91 ai tempi della guerra del Golfo, qualcuno osservo' che le parti in conflitto erano 3: USA, IRAQ e CNN. Gia', la CNN, ossia la potentissima emittente americana che con i suoi servizi, trasmessi proprio dal Rashid, fece "vedere" in diretta il bombardamento di Bagdad. B. E' stata la mano di Allah. C. Si tratta di una montatura dei servizi segreti di Saddam, in combutta con la CBS che ha venduto a mezzo mondo le immagini dell'esplosione, fregando la concorrenza. D. Gli Americani sono talmente jellati che farebbero meglio ad arrendersi. --------------------------------------------------------------------------- E a Noi? Il nuovo prodotto stampato di Berlusconi e' finalmente comparso in tutte le edicole nel suo specchiato splendore. Una rapida occhiata e ci si rende conto che si tratta di una assoluta novita' editoriale, con una grafica agile e moderna e collaboratori di gran fama. Pregevole e' infatti il pool degli opinion maker: Montanelli, Cossiga, Gorbaciov, Verde, Mina, come dire il gotha della cultura alternativa italiana. Di particolare rilievo i protagonisti dei principali servizi del numero uno che ben descrivono la linea editoriale del settimanale: Di Pietro, Carlo & Diana, Bossi, Pippo & Katia, Nureyev, Clinton, ecc. accanto a Roberto Blundo, Carlo D'Andrea, Vincenzo Abate, ecc. Assolutamente da non perdere l'apparato iconografico: Di Pietro che uccide una talpa a colpi di sandalo, Bossi quando imitava Don Backy, Greta Garbo (?) nuda. Il nostro particolare plauso va al servizio sulle cinque suore che "accudiscono" il papa ed alla piantina dell'appartamento di sua santita', di particolare utilita' nel caso uno di noi si perda nei meandri vaticani. La crisi in cui verserebbero (vedi "L'Espresso" del 17/1/93) i settimanali nazionalpopolari non giustificherebbe una nuova testata, ma l'unica incongruenza che abbiamo trovato nel nuovo settimanale e' proprio nel suo nome: meglio sarebbe stato chiamarlo Essi. La prima constatazione e' che gli oppositori nel produrre comunicazione usano schemi propri della stampa borghese o riformista, senza rendersi conto che certe strutture formali dell'informazione scritta sono espressione e strumento dell'ideologia autoritaria, rispondenti ad una ben precisa visione del mondo. Cosi', piu' o meno consciamente, quando dei rivoluzionari "inventano" un giornale in realta' creano la versione "di sinistra" di una testata di regime (per molto tempo, ad esempio, Umanita' Nova ha ricalcato l'impostazione de la Repubblica, almeno nella prima pagina). In tale ambito, l'immagine ha gia' il destino segnato, al servizio del testo scritto o come tappabuchi. Dal '77 ad oggi sono state rare le eccezioni alla regola: Zut-A/traverso, Skizzo, Insurrezione, Vuoto a perdere; qualche pagina di Autonomia, Provocazione, Collegamenti-Wobbly, il manifesto e poco altro. Un'immagine puo' essere inedita o d'archivio, d'attualita' o storica, tecnicamente perfetta o dilettantistica, ma deve avere una sua indipendenza e un suo spazio adeguato, altrimenti la sua presenza e' del tutto ininfluente per la comunicazione. Specialmente in una prima pagina o in una copertina deve essere in grado di stabilire una sintonia tra il giornale e il destinatario, attualmente invece ben di rado un'immagine d'apertura di un giornale rivoluzionario rimane impressa nella nostra memoria, segno che si stenta a trasmettere una qualche emozione; ma viene anche il dubbio che ci sia un pudore eccessivo per i nostri sentimenti, le nostre pulsioni, col risultato che i fogli "alternativi" appaiono tutti ugualmente smorti e cupi, anche se in quadricromia. Gli anarchici, in particolare, riescono ad essere "invisibili" anche sulla propria stampa. In Italia nonostante qualche crisi, e' ancora ben forte il predominio culturale della Parola ma specie sul piano della critica sociale mostra una sua crescente perdita d'efficacia "eversiva" in quanto il discorso rivoluzionario somiglia terribilmente a quello della normalizzazione, perbenisticamente diffidente verso possibili attentati all'estetica della mediocrita'. Nella comunicazione sociale emerge invece la necessita' di un intelligente estremismo che faccia scontrare sulla carta come sui muri diversi codici espressivi, per provocare nel destinatario una loro fruizione simultanea e senza gerarchie. E per fare questo non c'e' bisogno di professionisti o di artisti, ma di sovversivi in carne ed ossa con la voglia di divertirsi comunicando attraverso il saccheggio e la destrutturazione dell'immagine dominante. "Ogni pagina deve essere un'esplosione di serieta', profonda e grave, o di rivolta, o di cattiveria, o di cose nuove o eterne, o di stupidita' distruttrice, o di entusiamo per i principn o per il modo in cui essa viene stampata." (F. Picabia) Jean Rabe ******************************************************************** Gocce ^^^^^^ La fanta-satira-politica e' un genere nel quale Stefano Disegni e Massimo Caviglia hanno gia' dimostrato di trovarsi a proprio agio, e questo li ha portati nel lu glio scorso a sfornare Razzi Amari . Un racconto a fumetti con una musicassetta allegata sulla quale sono incise le canzoni che fanno da "colonna sonora" all'albo. L'idea di ascoltare canzoni inedite i cui testi sono parte integrante del fumetto e' buona a patto di non pretendere arrangiamenti da Beatles o disegni alla Alex Raymond. La storia non e' delle piu' originali, una insalata mista derivata dall'abbondante letteratura della fantascienza sociologica sul tema delle distopie (utopie negative), con una spruzzata di cyberpunk che va tanto di moda; ma, comunque, la storia regge anche grazie alla novita' della colonna sonora allegata. La cosa piu' antipatica che abbiamo riscontrato nel tutto, volendo trovare un pelo nell'uovo, riguarda la non concordanza tra il cantato e lo scritto, cosa alquanto normale come puo' confermare chiunque abbia cercato di seguire una canzone leggendone il testo sulla copertina dell'album. Ma, nel nostro caso, non si tratta solo di "aggiustamenti" letterari, infatti nel brano n.6, Tutta colpa dei babbuini, la strofa "originale" era: "...non bastavano il papa ed i socialisti, l'ozono, Andreotti ed i razzisti..." che, nella canzone, e' diventata "...non bastavano Andreotti ed i socialisti, l'ozono, Pippo Baudo ed i razzisti..." con un papa in meno e un pippobaudo in piu'. Non sappiamo se la censura sia stata consigliata dall'Editore o da una eccessiva cautela degli autori, fatto sta che c'e' stata. Peccato. --------------------------------------------------------------------------- La storia recente del rock e' piena delle cosiddette "reunions", ossia del ritorno sulle scene di gruppi scomparsi da tempo (tra gli altri, negli ultimi anni Deep Purple, CSN&Y, Yes): trattasi normalmente di storie tristi e un po' squallide di vecchie cariatidi che riprendono a suonare con poca voglia se non di quattrini e destinate a breve durata. Una sorta di reunion, ma in altro campo (editoriale) e dai risultati molto diversi, e' stata quella di "Insekten Sekte", storica rivista sotterranea milanese (1970/1975) che ha ripreso le pubblicazioni nel 1988. Regolare nelle uscite (naturalmente solstizi ed equinozi), ma assai mutevole in forme e contenuti, dopo un primo periodo in formato poster ed un altro in formato A4, "I.S." s'e' ristretta, sino a diventare piu' piccola di rAn. Il piatto forte (e unico) degli ultimi tempi e' costituito dalla pubblicazione degli inediti di Matteo Guarnaccia, corresponsabile della Setta degli Insetti assieme a Gigi Marinoni. Con le sue tipiche figurine "dolci e stralunate" e il piacevole caos delle sue tavole piene di oggetti e personaggi sorridenti, Matteo (gia' noto per l'indimenticabile albo a fumetti su Jimi Hendrix edito dal "Rolling Stone" italiano) e' sicuramente uno dei disegnatori e narratori per immagini piu' dotati della penisola, con un suo tratto originalissimo a meta' strada tra la linea chiara e gli under comix. Nell'ultimo "Insekten" (n.35) si possono ammirare le sue doti in "Maghi", raccolta di ritratti e brevi note del gruppo dei fattucchieri piu' strampalati mai visti, che con strani funghi, piante di cannabis e poi folletti, Oriente preso a cuor leggero ed altre stranezze ancora, rievoca suggestioni nettamente psichedeliche e mette in rilievo ancora una volta l'originalita' creativa e la vocazione cosmopolita degli artisti underground italiani. E vedere che un'opera di cosi' elevato valore stilistico sia sulle pagine di una fanza autoprodotta invece che sulla carta patinata di qualche rivista fa comunque bene al cuore. Per contatti: Insekten Sekte, C.P. 190, 20025 Legnano (MI). ----------------------------------------------------------- Tra i miti letterari del movimento sovversivo c'e' quello dei manuali che spiegano "come si fa...", mito che resiste nel tempo, solo qualche mese fa un lettore de il Manifesto chiedeva di poter visionare -per una ricerca- il leggendario manuale di guerriglia edito da Feltrinelli. Tutto questo nonostante qualcuno abbia scritto che "e' piu' rivoluzionario un testo sulla tecnologia delle armi da fuoco, che l'opera completa del presidente Mao" (citazione a memoria). Spesso infatti tra le pieghe dell'enorme quantita' di dati prodotta dai media e' possibile trovare informazioni che, pubblicate su un giornale sovversivo, porterebbero all'immediato arresto dei suoi editori. Tra gli ultimi casi, un trafiletto riportato dal sempre piu' incredibile quotidiano il Giornale (9/9/92), dal quale apprendiamo che su una rivista dedicata ai temi della sicurezza e' stato pubblicato un dettagliato articolo sul modo migliore per fabbricare un'auto bomba. Le pubblicazioni sulla sicurezza, composte da un 90% di pubblicita' redazionale relativa ai produttori di sistemi di allarme e simili, sono sempre state una vera e propria miniera di informazioni per chiunque si interessi alle tecnologie che lo stato e il capitale sviluppano per mantenere il loro potere. Difficilmente reperibili -spesso solo in abbonamento- e di costo medio/alto, questi bollettini si rivelano sempre fonte di notizie abbastanza attendibili, non dimentichiamo che sono soprattutto una forma di pubblicita', ed aggiornate per chiunque si pone il problema di come attrezzarsi di fronte alla societa' blindata che avanza.