Polizia e carabinieri all'assalto dell'ospedale di Cividale

Nel gennaio del 1968, ero andato a Castelvetrano, nella Sicilia occidentale, con un gruppo del servizio civile, di cui facevano parte anche Alberto L'Abate studioso di sociologia e animatore e dirigente di gruppi non violenti, e il sacerdote fiorentino Don Mazzi parroco progressista dell'Isolotto, con lo scopo di aiutare le popolazioni colpite dal terremoto.
Mi ero trovato così nella necessità di organizzare servizi medici di emergenza, in un ambiente già difficile prima del disastro.
Ricordo che avemmo a che fare con la mafia, che voleva impedirci di lavorare per le persone più bisognose, che voleva che ci occupassimo dei ricchi, che si erano rifugiati nelle ville sul mare, nella zona di Mazara del Vallo. Negli anni precedenti, a Firenze, mi ero reso conto, come ho già raccontato, che gli internamenti psichiatrici sono un arbitrio e vanno evitati in Sicilia cominciai a riflettere sul rapporto che esiste tra le funzioni della psichiatria e la società divisa in classi.
Questa esperienza mi sarebbe servita in seguito a Castelnuovo nei Monti per organizzare il movimento politico contro il manicomio di Reggio Emilia.
Fu appunto durante quel periodo di lavoro tra le popolazioni terremotate dell'occidente della Sicilia che ricevetti da Cotti l'invito di andare a lavorare a Cividale del Friuli, in un reparto nuovo dell'ospedale civile della città istituito d'accordo con Basaglia, che allora lavorava a Gorizia, come alternativa agli internamenti in manicomio.
Cotti, che allora seguiva le teorie di Szasz, mi conosceva sia per le mie idee che per il mio modo di lavorare.
Da Gorizia arrivarono il dottor Tesi e tre giovani assistenti sanitarie, tutte persone del gruppo di Basaglia.
L'entusiasmo e l'intelligenza che mettemmo nel lavoro ci dettero momentaneamente l'illusione di intravedere già il tramonto della psichiatria. Però la differenza sempre più grande tra i criteri della nostra attività e i pregiudizi dell'ambiente sociale provocarono in breve l'intervento del governo e la chiusura del reparto con la forza.
Racconta Roberto Vigevani ("Il Ponte" settembre 1968):

ASSALTO A CIVIDALE

Durante la seconda guerra mondiale i nazisti costituirono a pochi chilometri da Cividale del Friuli una sorta di repubblica di cosacchi collaborazionisti, la popolazione ancora ricorda gli avvenimenti che si collegarono a quello stanziamento.
Poi venne la DC e il senatore Pelizzo che fece della zona un suo feudo. Nei feudo Pelizzo non succede mai niente, la piazza dei Longobardi e la via Paolino d'Aquileia si animano soltanto nelle ore di libera uscita dei militari di stanza, nelle altre ore del giorno sono quasi deserte. Giulio Cesare dal suo piedistallo veglia sul caffè San Marco e sulla valle del fiume Natisone, sul greto del quale, nella stagione di magra, un prete scrive con sassolini bianchi e rossi esortazioni agli scolari svogliati.
Chi si fosse trovato a Cividale il 2 settembre di quest'anno avrebbe avuto però l'impressione di una grande agitazione. Si formulava addirittura l'ipotesi che Leone avesse deciso di liberare la Cecoslovacchia, da Udine affluivano infatti in direzione del confine, cioè in direzione di Cividale, forze di polizia e di carabinieri in numero mai visto, i posti chiave della città, compresa la bacheca nella quale di solito è esposta "L'unità", erano presidiati da agenti in divisa o in borghese.
L'Ospedale Civile di Santa Maria dei Battuti era completamente circondato da poliziotti e carabinieri con jeeps, furgoni e cellulari: il senatore Pelizzo aveva deciso di chiudere il reparto neuropsichiatrico. I nemici designati erano l'équipe del Professor E. Cotti e i dodici degenti che a quella data rimanevanonel reparto; tra questi molti anziani e un invalido del lavoro.
Nel corso del mese di settembre il Consiglio di stato avrebbe dovuto riunirsi per decidere sulla continuazione o meno della vita di quel reparto, la costruzione del quale era costata allo stato qualche centinaio di milioni. La vertenza era ufficialmente di carattere amministrativo: l'amministrazione dell'ospedale, dopo soli tre mesi dall'apertura del reparto, aveva deliberato che il reparto stesso venisse soppresso in quanto economicamente non autosufficiente. Il Professor Cotti aveva invece mostrato valide ragioni per la continuazione del reparto; non solo il suo bilancio era almeno paritario ma in più si sapeva che l'afflusso dei degenti era stato limitato dagli amministratori che avevano bloccato il convenzionamento INAM e avevano scoraggiato i ricoveri, facendo circolare fin dall'inizio voci sulla cessazione della attività di quel luogo di cura.
Questi i motivi ufficiali. In realtà i metodi applicati dal Prof. Cotti e dai suoi collaboratori nella cura dei degenti sconvolgevano la falsa tranquillità della valle del Natisone. Nel vicino manicomio di Gemona, vi sono celle di segregazione con panche lunghe quanto basta a far sdraiare 3/4 di una persona, vi è una donna rinchiusa dall'età di quattro anni alla quale nessuno ha insegnato a parlare.
Insomma è un cronicario dal quale presumibilmente non si esce se non dopo morti. Questa è la psichiatria che tranquillizza gli amministratori e forse anche i fabbricanti di psicofarmaci, ma cosa dire di quel Professor Cotti che parla con "schizofrenici" e "catatonici" dei loro problemi, che ha abolito nel suo reparto non solo ogni mezzo di contenzione sia fisico che farmacologico che ha persino evitato - a ribadire la non pericolosità delle persone alle prese con problemi anche gravissimi - di assumere personale infermieristico maschile? Che dire soprattutto di quelle riunioni dei degenti nelle quali i problemi sociali e quelli affettivi emergono nella loro drammatica consistenza spostando l'accento dalla "follia" di chi parla ai problemi delle famiglie a quelli della miseria, a quelli del lavoro o della disoccupazione ?
Agli amministratori cividalesi non importava se gli "schizofrenici" non erano più "schizofrenici" ma uscivano dal reparto in grado di riorganizzarsi - nei limiti concessi dall'ambiente - una vita diversa e migliore, non importava se a Cividale le degenze duravano un mese invece di venti anni e soprattutto se esse conducevano spesso alla guarigione. Se le degenze nel reparto Cotti avessero avuto la durata media soltanto di un decimo di quella di un normale ospedale psichiatrico italiano il reparto Cotti sarebbe stato "completo" dopo un mese dalla apertura, forse le lunghe degenze avrebbero spuntato persino i pretesti degli amministratori .
Ciò che turbava i sogni del perito tecnico Cantarutti, presidente del Consiglio di Amministrazione dell'Ospedale Civile, e del senatore Pelizzo, sottosegretario alla Difesa, era anche questo: che il Professor Cotti ed
i suoi collaboratori per curare un degente andassero anche nella sua casa, che chiamassero in causa i familiari perché i problemi di una persona nascono sempre in rapporto con altre persone, che i familiari venissero all'ospedale e partecipassero alle discussioni, che guarire significasse appunto capire i propri problemi e quelli dell'ambiente. Questo occorreva impedire. Di qui la soppressione del reparto, per poi le denunzie pretestuose contro il Professor Cotti e i suoi collaboratori per violazione di domicilio aggravata, a loro che aspettavano la decisione del Consiglio di stato; per danneggiamento, mentre avevano soltanto costruito e arricchito con il loro lavoro il vuoto di un padiglione di ospedale; per usurpazione di pubblico impiego, mentre rimanevano, ormai senza stipendio, solo per poter mandare a casa gli ultimi degenti.
- Dal 1943 non si era vista una cosa del genere - così si diceva in una famiglia del luogo di insospettata ortodossia democristiana, e in effetti l'irruzione nell'ospedale di poliziotti, carabinieri e infermieri del manicomio di Udine è stato un episodio inaudito: il terrore dei degenti, la minaccia che venissero condotti con la forza al manicomio di Udine per mezzo dei cellulari della polizia, la distruzione di quel reparto che per il lavoro intenso di Cotti Antonucci Tesi, delle signorine Campadelli, Bruni e Tusulin, assistente sociale la prima, assistenti sanitarie le ultime due, era divenuto un modello di convivenza civile, sono state dimostrazioni memorabili di quel progresso all'inverso che i nostri governanti ogni giorno ti offrono.
Non mi è possibile in questa nota diffondermi sui modi di cura e sulle verità scientifiche conquistate e provate dal gruppo Cotti, il quale si ispirava tra l'altro ai principi proposti dall'Organizzazione mondiale della sanità per l'ambito psichiatrico. Dirò soltanto che nonostante la minacciosa irruzione poliziesca, Cotti ed i suoi collaboratori, coerenti ai loro principi, hanno impedito che i degenti fossero condotti in manicomio e sono riusciti a dimetterli in modo che potessero tornare alle loro case.

Ogni giorno nei nostri manicomi migliaia di persone sono segregate, torturate in ogni senso, messe in condizioni tali che i loro problemi si aggravano sempre di più fino a divenire cronici ed ineliminabili. E in questi luoghi che si crea, che si costruisce la vera e propria malattia mentale. La polizia qui non interviene mai.
Questi sono luoghi ordinati, chiusi e silenziosi, e dall'altra parte, come sembra abbia detto recentemente Leone a un senatore che gli parlava di Cividale, è vero che i nostri fratelli soffrono nei manicomi, ma bisogna fare attenzione ai cambiamenti troppo rapidi perché essi possono essere pericolosi!
Se oggi, dopo la chiusura del reparto Cotti, un cittadino del mandamento di Cividale del Friuli si trova nella necessità di una cura psichiatrica, otterrà per mezzo della sua assicurazione la possibilità di ricoveri di contenzione, di terapia di shock, di maltrattamenti e forse anche di una lobotomia: tutto gratuito.